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Abitazioni distrutte dall’alluvione in montagna

L’alluvione in Ticino nel 1868 e le sue conseguenze sull’emigrazione

Dalla sera del 27 settembre sino alla mattina del 5 ottobre 1868 si verificò nei Cantoni Vallese, Uri, Ticino, Grigioni e San Gallo quella che risulta essere la più grave alluvione nelle Alpi svizzere di cui abbiamo notizie certe. Anche guardando solo al Ticino, la lista dei comuni che subirono danni è lunghissima. La Val di Blenio e la Leventina furono le valli più colpite, ma nemmeno la Riviera, il bellinzonese, la Vallemaggia e il locarnese furono risparmiati dalla furia di fiumi e torrenti.

 

Le acque del Verbano salirono in poco tempo addirittura di 8 metri, allagando le case e i magazzini dei borghi lacuali e quasi tutto il Piano di Magadino. Bellinzona lamentò solo pochi danni grazie all’enorme “Riparo tondo” costruito nel XVI secolo. Anche il Sottoceneri fu risparmiato, a parte alcuni straripamenti del Vedeggio, del Cassarate e l’innalzamento del Ceresio di 2 metri al di sopra dello zero del limnimetro, ma dovette fare i conti con una successiva alluvione che ebbe luogo nel maggio 1869 e interessò in particolare il circolo della Magliasina.

L’alluvione del 1868 produsse un bilancio pesantissimo: 50 vittime (di cui 41 in Ticino) e perdite complessive per 14 milioni di franchi. Il Ticino ebbe oltre 8’000 danneggiamenti privati, per lo più nelle classi più povere, per complessivi 6 milioni e mezzo di danni. Andarono distrutte case e stalle, scorte di viveri e foraggi, oltre che annegamenti di bestiame, sradicamenti di alberi e vigneti e devastazioni di campi e prati. Naturalmente anche strade, ponti e opere idrauliche subirono pesanti stravolgimenti.

 

Fu così che se la prima grande ondata migratoria oltreoceano era stata spinta dalla carestia e dalla febbre dell’oro, per la seconda contribuì fortemente questa alluvione. Nel 1868 partirono dal Ticino più di 1200 persone e nel 1869 circa 1500. L’esodo continuò per altri 4-5 anni, coinvolgendo anche le donne e interi gruppi familiari.

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Agenzia di emigrazione ancora esistente a Lugano a inizio ‘900

Il ruolo ambiguo delle agenzie di emigrazione

Queste agenzie agivano sul mercato come imprese con puro scopo lucrativo e incoraggiavano la domanda offrendo condizioni apparentemente vantaggiose. Annunci sulla stampa e prospetti pubblicitari invitavano ad emigrare reclamizzando trasporti a poco prezzo. Insieme al viaggio veniva anche offerto l’acquisto di terreni che risultavano spesso poco interessanti e improduttivi.

 

A metà ottocento il viaggio oltreoceano per gli emigranti costava tra i 600 e i 1’000 franchi, ossia quanto percepiva un artigiano o un operaio in uno o due anni di lavoro. Pochissimi disponevano di una simile somma e quasi tutti dovevano ricorrere a prestiti, spesso reperiti dalle stesse agenzie.

 

Non appena gli imbarchi iniziarono a diminuire la propaganda degli agenti divenne più pressante e invadente. Per riempire i ponti dei velieri non bastavano più gli annunci ripetuti sui giornali, né la pubblicazione di lettere entusiastiche di cercatori fortunati o di dichiarazioni di riconoscenza ai trasportatori.

 

Gli agenti iniziarono a circuire le autorità locali per indurle a diffondere le loro offerte e soprattutto ad anticipare i mezzi finanziari, percorrevano le valli per spiegare agli esitanti che si poteva emigrare anche senza disporre di denaro, reclutavano i titubanti nei giorni di mercato, si appoggiavano a una rete di intermediari locali, maneggioni, usurai, notai che facilitavano tutte le pratiche. Taluni emigranti si indebitarono privatamente ipotecando i loro beni o impegnandosi verso i creditori con il vincolo di uno o due anni del proprio lavoro o di quello dei congiunti. Molte agenzie furono ben presto accusate di truffa e inganno e a più riprese intervennero le autorità cantonali nonché quelle federali che stabilirono precise norme da osservare.

Durante la trasferta per l’Australia, molti emigranti (specie nell’epoca della corsa all’oro) trovarono ben altro dell’assistenza promessa, del vitto abbondante, degli alloggi vasti e ariosi. Ammassati come bestiame, malnutriti, trattati come schiavi per oltre 150 giorni, trasportati talvolta solo fino a Sidney invece che nella promessa Melbourne, si presentavano allo sbarco talmente emaciati da risultare irriconoscibili agli stessi compaesani venuti ad accoglierli. I poveretti dovevano poi raggiungere a piedi i campi auriferi sovraffollati, scavare in lotti minerari ormai esauriti, rivoltando con poco profitto montagne di ghiaia e terra, difendersi da approfittatori, ladri ed avventurieri.

Le prime agenzie d’emigrazione nacquero in Svizzera negli anni ’50 del XIX secolo. Nel 1882 ce n’erano nove, di cui sei a Basilea (con filiali in altri cantoni, tra cui il Ticino) e le altre ad Aarau, Berna e Ginevra. Nel 1885 vi erano impiegati in tutto 359 agenti. I servizi delle agenzie elvetiche venivano utilizzati anche da emigranti di altri paesi; nel 1913 questi furono addirittura ben 130’000 ad usufruirne.

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Lavoratori in miniera a fine ‘800

Lavorare in miniera e i danni per la salute

Operai, geologi, progettisti, ingegneri minerari, sono le principali figure che lavorano tuttora nell’industria estrattiva. La categoria più esposta a malattie e incidenti, spesso di natura mortale, resta però sempre quella dei minatori.

Gli incidenti collegati a questa tipologia di lavoro sono di varia natura: macchinari e attrezzature inadeguati o obsoleti, norme di sicurezza carenti, blandi controlli, nonché ovviamente la fatalità. È questo un misto di elementi che contribuisce a creare condizioni di lavoro difficili e a volte purtroppo fatali.

 

Va sottolineato che un grave rischio per questi operai è quello delle malattie legate alla tipologia di lavoro svolto. Esse di norma si manifestano nel tempo, ma non sono meno letali degli incidenti. Quelle tipiche di chi lavora nelle miniere sono di natura respiratoria: antracosi e pneumoconiosi, colpiscono cronicamente coloro che lavorano nelle miniere di carbone, mentre la silicosi, che danneggia gravemente i polmoni, è causata dall’inalazione di polvere contenente biossido di silicio.

Come nel 1800, anche ai tempi nostri la scelta di lavorare in profondità, sottoterra, è sovente dettata da condizioni di estrema povertà e rimane in molti stati una delle poche fonti economiche per sopravvivere.

Ciò si riscontra specie nei paesi emergenti e in via di sviluppo, dove il lavoro in miniera diviene spesso forzato e privo di particolari norme democratiche di ingaggio. I minatori risultano particolarmente soggetti a intimidazioni e minacce, fino a casi di vera e propria coercizione.

Se da una parte le grandi compagnie minerarie hanno col tempo progressivamente adottato misure di sicurezza e prevenzione, concedendo anche condizioni retributive migliori, lo stesso discorso non può dirsi per le piccole e medie imprese dell’industria estrattiva, cui viene attribuita la maglia nera degli incidenti mortali.

Dalle responsabilità, anche gravi, non restano immuni pure vari governi che, di fronte alle condizioni di lavoro offerte dalle compagnie estrattive, divengono oggetto di facile corruzione, con la conseguenza di un alleggerimento nei controlli e nell’applicazione delle norme, già di per se carenti in termini di tutela dei lavoratori.

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Alloggi di terza classe nei velieri a metà ‘800

Il viaggio in mare nell’800

Per comprendere cosa significasse nell’ottocento attraversare l’Atlantico o il Pacifico su navigli che niente avevano a che vedere con quelli attuali, bisognerebbe leggere i resoconti di coloro che ne fecero l’esperienza a proprie spese.

Il viaggio costituiva una traumatica e incredibile avventura. Già il tragitto via terra fino al porto d’imbarco risultava piuttosto massacrante. Una volta sulla nave, i poveretti trovavano alloggio nella terza classe che assomigliava più a un lazzaretto o a una prigione. La mensa aveva l’aspetto di una triste e nauseabonda osteria di infimo livello.

Nel 1894 il famoso giornalista e scrittore Edmondo De Amicis (autore del romanzo “Dagli Appennini alle Ande”) volle provare l’odissea di un viaggio su una nave in terza classe. In realtà viaggiò in seconda classe ma passò comunque la maggior parte del suo tempo con i passeggeri della terza, tuttavia fuori, all’aperto. Nei locali occupati dagli emigranti vi si recò una sola volta e fu così sopraffatto dai cattivi odori che scappò immediatamente sul ponte per vomitare.

Va da sé che tutti o quasi i passeggeri della terza classe preferivano trascorrere il tempo all’esterno, incuranti della pioggia e del freddo, all’aria fresca. In quei dormitori respirare era quasi impossibile. L’aria era piena del fumo e dei vapori delle macchine, i letti erano sacchi di paglia increspati e maleodoranti sistemati in anguste cuccette di legno.

In genere i passeggeri di terza classe erano divisi per sesso e sistemati in differenti compartimenti: la parte anteriore della nave era riservata agli uomini soli, quella centrale alle coppie sposate, le donne sole alloggiavano nella parte posteriore. I pasti venivano distribuiti negli spazi comuni di ciascun compartimento per gruppi di sei persone, una delle quali a turno era incaricata del ritiro delle vivande dalla cucina.

Oltre alla costante preoccupazione per il futuro incerto, durante il viaggio gli emigranti subivano molti disagi: il mal di mare, la noncuranza, gli abusi dell’equipaggio, la paura dei naufragi, delle malattie contagiose e la possibilità di essere sbarcati in un porto diverso da quello previsto. Essendo carente la legislazione in materia, le conseguenti speculazioni delle compagnie di navigazione potevano trasformare la traversata in un’esperienza terribile e altamente rischiosa.

Se durante il viaggio scoppiava un’epidemia, la già difficile situazione sanitaria a bordo diventava drammatica. Il sovraffollamento, la cattiva ventilazione dei dormitori e la scarsità delle attrezzature mediche favorivano la rapida diffusione delle malattie. La malaria, il morbillo, le malattie bronco­polmonari e gastrointestinali costituivano la principale causa di infermità e morte dei bambini. La mancata assistenza medica trasformava normali patologie infantili in
pericolosissime epidemie.

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San Francisco a metà ‘800

L’emigrazione ticinese in California

Iniziò durante il XIX secolo con la scoperta dell’oro. I primi due ticinesi furono dei leventinesi che arrivarono a San Francisco nel 1849. Negli anni successivi il numero di emigranti aumentò, variando da meno di cento fino a diverse centinaia. La maggioranza di loro proveniva dalle valli superiori del Ticino, soprattutto dalla Valle Maggia e dalla Valle Leventina. Sovente il comune o il patriziato prestavano i soldi per il viaggio.

Bisognava allora ipotecare le proprietà possedute o reperire un prestito privato. L’emigrante si rivolgeva a un’agenzia di viaggio e firmava un contratto dove si precisava il percorso e la sistemazione. Bisognava prendere la diligenza e attraversare il passo del San Gottardo, a volte a piedi. A Lucerna vi era la ferrovia. I porti marittimi d’imbarco erano Le Havre, Amburgo, Anversa e Liverpool. Spesso capitava che, prima di partire da Liverpool, gli emigranti sostassero a Londra per lavorarvi qualche tempo e poter poi raggiungere l’America con i magri soldi risparmiati.

Il viaggio poteva durare diversi mesi in quanto occorreva circumnavigare il Continente sudamericano o sbarcare a Colón e attraversare l’istmo di Panamá. Il canale omonimo venne infatti inaugurato solo nel 1920. Nel 1861 un emigrato scriveva di aver impiegato tre mesi per arrivare in California. Nel 1869 la costruzione della ferrovia che andava da New York a San Francisco raccorciò notevolmente la durata del viaggio.

L’espulsione dei ticinesi dal regno lombardo-veneto provocò un forte aumento dell’emigrazione verso la stessa California. Per il Ticino però, oltre alla chiusura della frontiera, vi furono altre concause ad ingigantire questo fenomeno, come le vicissitudini politiche locali, le inondazioni che avevano distrutto campi e strade nonché le facilitazioni di viaggio offerte.